Sono circa 16,500 le donne cilene che, ogni anno, arrivano negli ospedali con gravidanze a rischio per malformazioni del feto incompatibili con la vita e per complicanze che minacciano l’esistenza della partoriente stessa. L’aborto però non può essere la soluzione perché non è concesso dalla legge che considera la pratica un reato. Oggi, infatti, in Cile l’interruzione di gravidanza può essere punita con pene dai 3 ai 5 anni di carcere.
Dietro alle sbarre, dunque, le donne che hanno abortito perché vittime di violenza sessuale. Secondo alcune stime, sono più di 130mila le gestazioni interrotte clandestinamente ogni anno. Impossibile, comunque, avere un dato preciso considerato che la pratica abortiva avviene illegalmente. Eppure nel Paese l’aborto terapeutico è stato legale per più di cinquant’anni fino a quando è stato vietato nel 1989 dall’ex dittatore Augusto Pinochet.
Sono seguiti 24 anni di democrazia in cui, a causa dei gruppi conservatori e delle pressioni della Chiesa cattolica, non è stata reintrodotta la possibilità di abortire. Per segnare una frattura nel muro del conservatorismo religioso e politico e del bigottismo ipocrita che preferisce veder morire le donne per una preannunciata gravidanza a rischio piuttosto che fare un passo avanti verso un’autentica democrazia, bisogna attendere il 2014, anno in cui viene rieletta presidente del Cile Michelle Bachelet.
Punto di forza del programma politico del nuovo mandato del capo dello Stato è proprio la legalizzazione dell’aborto terapeutico.
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