Torna nelle colonne del giornale il nostro Sergio Calderaro, penna fine, pungente e divertente. Oggi comincia una sua mini-saga di racconti. Sono veri o falsi? Sono di fantasia o raccontano episodi realmente accaduti? Sergio non lo confesserà mai. E quindi, caro lettore, sarai tu a decidere se quello che leggi è vero o di fantasia. E il dubbio, Sergio, non lo ha voluto togliere neanche a noi della Redazione.
A tutti sarà capitato di trovarsi in uno stato di leggera incoscienza o meglio di trovarsi su uno strano confine tra presente e passato, tra apparente realtà e chiarissimi ricordi. A tutti sarà capitato di voler raccontare qualcosa che per un qualche, qualsiasi motivo è rimasto impresso e depositato in piccolo archivio da cui ogni tanto riesce ad uscire a volte con grande chiarezza a volte contornato da una sorta di leggera cortina sfumata. La storia che segue nasce in un periodo in cui (senza infamia e senza lode) svolgevo il servizio militare presso la Marina Militare Italiana come ufficiale di complemento. Alla decisione dell’ammiraglio di turno di imbarcare i giovani ufficiali a bordo dei dragamine di stanza alla base perché a detta sua “facessero il piede marino”, reagì con vero piacere non perché mi piacesse la vita avventurosa celebrata in ogni angolo della base con lapidi roboanti o cippi commemorativi, ma più semplicemente perché era un ottimo modo di interrompere una routine legata ad un’insopportabile vita di ufficio. Così la mattina prevista, all’ora prevista, sul molo previsto, all’ormeggio previsto mi presentai per imbarcarmi. Salì a bordo con quella sorta di insana incoscienza che avvolge gli sprovveduti. Mi presentai all’ufficiale di guardia che mi presentò al comandante in seconda che mi presentò al comandante della nave. Presentai il mio foglio di imbarco, che fu protocollato e registrato mentre i motori del dragamine andavano a basso regime. Siccome non eravamo ancora pronti, ma tutto lasciava prevedere che sarebbe avvenuta da lì a poco, uscì in coperta per assistere alle ultime fasi della partenza. Fu allora che guardai sul molo e vidi arrivare, diretto alla scaletta per salire a bordo, un altro comandante con l’ aspetto fiero di chi sa cosa l’aspetta, la sicurezza di sapervi fare fronte, le orecchie dritte, il passo giusto e deciso, saldo sulle sue quattro zampe. Lo riconobbi subito: era Filippo, il cane della nave.
Filippo lo conoscevano tutti. Era il capo incontrastato di una feconda comunità di cani che viveva all’interno della base. La sua vita si spartiva tra la vita da trascorrere sulla terraferma e i suoi periodi di imbarco a bordo di quello che lui aveva deciso essere il “suo” dragamine. Infatti era lui l’ultimo a salire a bordo quando si salpava e il primo a scendere quando si ormeggiava. Non su una nave qualsiasi ma sempre e solo su quella. Riusciva anche a distinguere le partenze vere da quelle che si chiamavano “prove di moto” quando cioè la nave accendeva i motori e sembrava che stesse per salpare da un momento all’altro. Lui, Filippo, saliva solo quando era necessario e capiva di essere indispensabile al completamento dell’organico d’equipaggio. Non aveva nessuna mansione specifica, ma era comunque come se fosse un pezzo integrante della nave. Salito a bordo fu ritirata la passerella d’imbarco, furono mollati gli ormeggi e partimmo per quello che può essere definito un viaggio avventuroso. Ci dirigevamo o meglio avremmo voluto dirigerci verso Trapani (noi eravamo partiti da Messina) ma un vento di ponente prorompente e continuo ci impediva di andare dritti, verso naturalmente occidente. E fu così uno zigzagare di continuo, un po’ andando avanti, un po’ mettendoci a ridosso delle Isole Eolie, un po’ dietro questa, un po’ dietro quella, lenti e per niente risoluti, ma con l’assoluta certezza che la forza degli elementi, quando la natura si incazza, è veramente un problema. E Filippo?
Lui stava accucciato sulla tolda, la testa appoggiata su una zampa, con lo sguardo sereno di chi sa come ci si comporta col mare grosso sapendo per esperienza che prima o poi il mare si sarebbe calmato e anche la sofferenza dello sballottolamento sarebbe passata. Nel frattempo conveniva stare calmi e aspettare fiduciosi, senza stare in ansia e facendo il meno possibile, disteso e con la testa appoggiata sulla zampa anteriore. Intanto alla base di Messina stava succedendo un dramma. Qualcuno, come qualche volta avveniva quando bisognava dare l’idea che la base non fosse un habitat destinato agli animali ma un vero insediamento militare, aveva chiamato gli accalappiacani per una di quelle sortite che per fortuna raramente finivano in tragedia per i poveri animali. I cani infatti, dotati di un particolare istinto e aiutati dal personale della base, riuscivano miracolosamente a sparire qualche minuto prima dell’arrivo dell’accalappiacani. Fatto il solito giro di routine il furgone di solito andava via senza riuscire a prendere neanche un cane e siccome la cosa si ripeteva più volte durante l’anno, il personale era convinto che qualcuno alla base avesse le traveggole e che i cani in realtà fossero opera di fantasia. Ma i ragazzi che erano di guardia non avevano visto in giro Filippo che in realtà “veleggiava” con noi a bordo del dragamine.
Preoccupati avrebbero voluto chiedere alla nave se per caso si trovasse con noi, ma capite che non potevano formulare la richiesta in maniera smaccata anche perché le comunicazioni da bordo alla base e viceversa passavano tutte ed erano ascoltate dal centro di ascolto di Roma. Sarebbe suonato bislacco chiedere: ma il cane è con voi? Ancora più bislacco rispondere: sì è con noi. Ed ecco la geniale idea del marconista di turno che decise di formulare la richiesta come se stessimo parlando del trasferimento e della presa in forza di un normale marinaio. Fu così che la richiesta, perfetta dal punto di vista formale fu: “pregasi comunicare se marò Cane Filippo trovasi imbarcato codesta unità a partire da quale data”. La risposta anche questa perfetta dal punto di vista formale fu : “Marò Cane Filippo est in forza questa unità decorrenza …..data“. Alla base si tranquillizzarono tutti. Dopo ventisei ore di sbattimento continuo appena in vista del porto di Trapani Cane Filippo si alzò e cominciò a fiutare l’aria, mentre sulla banchina si riuniva una ricchissima frotta di cani meticci di tutte le forme ed età. Appena fu appoggiata la passerella, Filippo, come d’abitudine, scese per primo e si immerse in quella folla di cani che sembrava aspettarlo da giorni, e, come era abituato a fare, senza voltarsi, si allontanò coi suoi amici trapanesi. Inutile dire che quando la nave ripartì, qualche ora dopo, il marinaio Cane Filippo risalì a bordo in perfetto orario, ultimo di tutti, dignitoso, signorile ma senza alcuna alterigia.