“Signor Vaiana, venga. E’ positivo”. Questa frase ha cambiato il corso dei miei giorni. All’improvviso. E quando meno me lo aspettavo. Sono entrato in un incubo. Di cui al momento non vedo la fine. Ho cercato, in quest’ultimo anno di emergenza sanitaria, di essere sempre rispettoso di tutte le norme emanate dal Governo. Ho troncato i rapporti con (quasi) tutti, limitato i miei spostamenti, usato sempre i dispositivi di protezione. Ma non è bastato. Alla fine una leggerezza mi avrà tradito. E mi ritrovo isolato, insieme al mio collega Vincenzo Ganci in una casa di campagna. A guardare l’orizzonte, a misurare la febbre ogni 4 ore e attendere con ansia il risultato della saturazione sul display di un apparecchietto che avevo visto solo in ospedale.
Noi, per fortuna stiamo bene. Ma il virus è subdolo. E siamo stati, nostro malgrado, untori di altre persone. Le abbiamo costrette a vivere anche loro questo incubo. Ed è questa la cosa che mi distrugge, mi devasta interiormente. Pensare di aver provocato la malattia a mamma e papà, alla mia compagna. L’ansia di sentire i risultati della loro febbre e della saturazione solo con un cellulare. La sensazione di essere impotenti. Di non poter fare nulla. Ma permettetimi di dire una cosa. E lo dico per esperienza vissuta, provata sulla pelle. Io ho trovato un affetto intorno che non mi aspettavo. A parte quello dei miei familiari e degli amici. Ho avvisato il sindaco Alberto Arcidiacono della mia situazione. Non passa giorno senza che lui non chieda della mia condizione fisica e non telefoni ai miei genitori. Ed è la cosa più bella sapere che oltre quel cancello c’è un sindaco disposto a mettersi in macchina per aiutarti e aiutare le persone che ti stanno vicino. Non è una cosa scontata. E quando finirà questo maledetto incubo (perché finirà), festeggeremo come va fatto. Un ritorno alla vita che mai come adesso sto desiderando ardentemente.
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