Maxi operazione dei carabinieri che hanno smantellato a Palermo la nuova Cupola di Cosa Nostra. La direzione distrettuale antimafia di Palermo ha disposto un fermo di indiziato di delitto – eseguito dai carabinieri del comando provinciale di Palermo – nei confronti di 46 persone ritenute responsabili di associazione per delinquere di tipo mafioso. Tra questi anche il nuovo capo, definito dagli investigatori l’erede di Totò Riina, sarebbe Settimo Mineo.
Settimo Mineo, 80 anni – ufficialmente gioielliere con negozio in centro – il più anziano fra i boss della mafia siciliana. E’ stato arrestato insieme ad altri 45 uomini che risultano accusati anche di estorsioni consumate e tentate, con l’aggravante di avere favorito Cosa nostra, fittizia intestazione di beni aggravata, porto abusivo di armi comuni da sparo, danneggiamento con incendio, concorso esterno in associazione mafiosa.
“In particolare – dicono dal comando provinciale – le indagini hanno consentito di: cogliere in presa diretta la fase di riorganizzazione in atto all’interno di Cosa nostra; documentare l’avvenuta ricostituzione della “nuova” commissione provinciale di Palermo; trarre in arresto il “nuovo capo” della commissione provinciale, Settimo Mineo, capo del mandamento di Pagliarelli”. Condannato a 5 anni al maxi processo istruito da Giovanni Falcone, fu riarrestato 12 anni fa per poi tornare in libertà dopo una condanna a 11 anni.
Come noto, la commissione provinciale, quale organismo di vertice di cosa nostra, composto dai capi mandamento e deputato ad assumere le decisioni di maggiore rilievo per l’organizzazione, fu fondata alla fine degli anni ‘50, al Grand Hotel et des Palmes di Palermo, durante una riunione tra i rappresentanti delle famiglie mafiose americane e siciliane. Dopo la “seconda guerra di mafia”, agli inizi degli anni ’80, la commissione mutava fisionomia, nel senso che il potere ormai incontrastato dei corleonesi faceva sì che perdesse la sua natura di organo collegiale e “democratico” per essere, invece, dominata da Totò Riina. Con l’arresto di quest’ultimo, avvenuto nel 1993, la commissione, ormai decapitata, aveva cessato di funzionare, pur rimanendo nella struttura ordinamentale di cosa nostra le cui regole, almeno nella forma, non perdono vigore.
Bernardo Provenzano, pur assumendo il ruolo di vertice dell’associazione mafiosa e di coordinamento tra i vari mandamenti, non risulta abbia mai presieduto riunioni plenarie, anche in ragione della “strategia della sommersione” con cui ha inteso dirigere cosa nostra. L’insofferenza degli uomini d’onore a tale situazione di impasse è emersa nel tempo in svariate attività d’indagine. Infatti, con Totò Riina in carcere la commissione provinciale non è più riuscita a riunirsi per più di 25 anni.
Nel 2008, però, le indagini condotte dal Comando Provinciale di Palermo, culminate nell’operazione “Perseo”, avevano documentato e sventato il tentativo, ordito da Benedetto Capizzi, Sandro Capizzi, Giuseppe Scaduto e Giovanni Adelfio, di ricostituire la commissione provinciale. Il vertice dell’organismo avrebbe dovuto essere assunto da Benedetto Capizzi, tuttavia fortemente osteggiato dall’ala dissidente capeggiata da Gaetano Lo Presti, reggente del mandamento di Porta Nuova, che ne disconosceva la legittimazione ad assumere il ruolo “sul presupposto della necessità della autorizzazione dei capi corleonesi detenuti, ed in particolare di Riina”.
Nonostante il tentativo fallito, le successive indagini condotte nel tempo e senza soluzione di continuità dai Carabinieri e denominate “Oscar”, “Pedro”, “Sisma”, “Argo”, “Alexander”, “Iago”, “Reset”, “Panta Rei” e, in ultimo “Talea”, hanno documentato che cosa nostra, al fine di sopperire alla mancanza di un organismo decisionale idoneo a dare risposte urgenti in una fase di emergenza, aveva riconosciuto legittimità ad agire ad un organismo collegiale “provvisorio”, costituito dai più influenti reggenti dei mandamenti della città, con mere funzioni di consultazione e raccordo strategico fra i mandamenti palermitani. Nulla a che vedere, però, con la sacralità e i poteri della commissione provinciale. Ecco perché il 17 novembre 2017, data della morte di Totò Riina, costituisce uno storico spartiacque per cosa nostra.
Da quella data, infatti, le indagini condotte dai Carabinieri sui mandamenti di Porta Nuova, Pagliarelli, Villabate e Belmonte Mezzagno hanno consentito di registrare un grande fermento all’interno di cosa nostra e – mediante le intercettazioni, le telecamere e i servizi dinamici sul territorio – è stata documentata un’escalation di incontri tra vari esponenti apicali dei mandamenti mafiosi cittadini e della provincia.
Le motivazioni di tale effervescenza venivano decodificate a seguito della captazione di alcune conversazioni ambientali che svelavano i dettagli di un’importantissima riunione avvenuta, il 29 maggio 2018 – poco più di sei mesi dopo la morte del capo corleonese – tra i reggenti dei mandamenti mafiosi della provincia palermitana. Alcune modalità organizzative, nonché le ragioni dell’importante incontro emergevano, in particolare, dall’intercettazione di una conversazione intercorsa tra Francesco Colletti, attuale capo del mandamento mafioso di Villabate, e il suo fidato autista Filippo Cusimano, anch’egli uomo d’onore alla famiglia di Villabate, e in quanto tale legittimato a conoscere.
Nello specifico, Francesco Colletti, riferendo di aver partecipato alla riunione da poco conclusa, effettuava chiari riferimenti ad altri importanti capi di mandamenti mafiosi della città e della provincia, anch’essi partecipanti alla riunione, quali Settimo Mineo (capo del mandamento mafioso di Palermo Pagliarelli), Filippo Bisconti (capo del mandamento mafioso di Belmonte Mezzagno) e Gregorio Di Giovanni (capo del mandamento mafioso di Palermo Porta Nuova). I riferimenti di Colletti erano anche rivolti ad altri uomini d’onore che, sebbene ricoprissero ruoli apicali nelle diverse articolazioni mafiose territoriali, non avevano l’autorità per partecipare alla riunione; alla presenza alla riunione di altri “vecchi di paese”, e cioè di capi di mandamenti mafiosi anche esterni alla città di Palermo, oltre a quelli espressamente citati; alla centralità del ruolo che Settimo Mineo aveva assunto in seno alla riunione, durante la quale aveva preso la parola e ricordato le relative regole agli altri intervenuti; alla necessità di periodiche riunioni durante le quali i rappresentanti dei mandamenti dovrebbero scegliere i vertici delle famiglie mafiose (e in tal senso durante la prima riunione si accennano a due casi: quello relativo alla scelta del capo del mandamento della Noce e quello relativo alla scelta del capo della famiglia mafiosa di Bagheria), dirimere gli eventuali contrasti tra i componenti delle varie articolazioni, nonché sanzionare gli uomini d’onore in caso di inadempienze o comportamenti censurabili allontanandoli temporaneamente o definitivamente dalle rispettive famiglie.
L’inchiesta è stata coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall’aggiunto Salvatore De Luca e dai pm Francesca Mazzocco, Amelia Luise, Dario Scaletta, Gaspare Spedale e Bruno Brucoli e ricostruisce gli assetti dei clan palermitani di Porta Nuova, Pagliarelli, Bagheria, Villabate e Misilmeri.
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