Non vi nascondo che nel rileggere le varie cronache del primo ventennio del XXI secolo, a distanza di tanti anni ancora oggi vengo assalito da una strano senso di disagio che trasmuta in quasi avversione e a volte in profonda pena, mista a disprezzo per quelli che allora vissero subendola o provocandola la condizione dei noti cambiamenti che per noi sono così lontani e apparentemente incomprensibili. E’ stato per questo che il professore Giacinto Talpa, animo sensibile e discreto oltre che persona coltissima, forse per confortarmi, ha pensato di fornirmi una paginetta di un antico pensatore che parla da distanze a un tempo siderali eppur contemporanee. Il professore che un po’ stronzetto lo è, come tutti i professori, non ha voluto dirmi però il nome dell’autore di questo lungimirante scritto. Io avrei un mezzo sospetto ma credo che per saperlo dovrò, come voi, arrivare alla fine del pezzo stesso.
N.B. Lo scritto è più lungo di 280 caratteri perché suppongo che ai tempi ci si dilungava di più costringendosi a pensare più a lungo; avvertiamo perciò gli abituali fruitori di Twitter di non approfondire la lettura, avvertendoli che se continueranno lo faranno a loro esclusivo rischio e pericolo. Se malauguratamente dovessero con un colpo di scroll arrivare alla fine del pezzo e scoprire chi è l’autore e il periodo in cui è stato scritto, peggio ancora senza aver letto tutto il brano, vuol dire che non sapranno mai quanta verità vi fosse contenuta e soprattutto quale futuro aspettava gli ingenui abitanti del vecchio paese…. Buona lettura…
“Quando la città retta a democrazia si ubriaca di libertà confondendola con la licenza, con l’aiuto di cattivi coppieri costretti a comprarsi l’immunità con dosi sempre massicce d’indulgenza verso ogni sorta di illegalità e di soperchieria; quando questa città si copre di fango accettando di farsi serva di uomini di fango per potere continuare a vivere e ad ingrassare nel fango; quando il padre si abbassa al livello del figlio e si mette, bamboleggiando, a copiarlo perché ha paura del figlio; quando il figlio si mette alla pari del padre e, lungi da rispettarlo, impara a disprezzarlo per la sua pavidità; quando il cittadino accetta che, di dovunque venga, chiunque gli capiti in casa, possa acquistarvi gli stessi diritti di chi l’ha costruita e ci è nato; quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine; c’è da meravigliarsi che l’arbitrio si estenda a tutto e che dappertutto nasca l’anarchia e penetri nelle dimore private e perfino nelle stalle?
In un ambiente siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari non tengono in alcun conto i maestri; in cui tutto si mescola e si confonde; in cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di mettersi al servizio di chi è comandato e ne lusinga, per sfruttarli, tutti i vizi; in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle reciproche convenienze nelle reciproche tolleranze; in cui la demagogia dell’uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo delle gambe su chi le ha più corte; in cui l’unico rimedio contro il favoritismo consiste nella molteplicità e moltiplicazione dei favori; in cui tutto è concesso a tutti in modo che tutti ne diventino complici; in un ambiente siffatto, quando raggiunge il culmine dell’anarchia e nessuno è più sicuro di nulla e nessuno è più padrone di qualcosa perché tutti lo sono, anche del suo letto e della sua madia a parità di diritti con lui e i rifiuti si ammonticchiano per le strade perché nessuno può comandare a nessuno di sgombrarli; in un ambiente siffatto, dico, pensi tu che il cittadino accorrerebbe a difendere la libertà, quella libertà, dal pericolo dell’autoritarismo?
Ecco, secondo me, come nascono le dittature. Esse hanno due madri. Una è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia. L’altra è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi. Allora la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della dittatura è pronuba e levatrice. Così la democrazia muore: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo”. Platone – La Repubblica Cap. VIII, Atene 370 A.C.