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Monreale, il nuovo Museo verso la privatizzazione: ecco strani movimenti “nell’ombra”

A giorni prenderanno il via degli incontri che prevedono il coinvolgimento di esponenti del mondo della cultura, delle istituzioni e dell’imprenditoria, chiamati a dialogare, a confrontarsi per definire un “valore sostenibile del restauro”.

L’iniziativa comincia simbolicamente da Matera, poi ci si sposterà a Venaria Reale, Venezia, Palermo e Monza, per concludersi a Istanbul. Le giornate di studio sono orientate alla ricerca di un modus operandi italiano che rappresenti un valore e una dimensione sostenibile del Restauro.

Gli addetti del settore sanno però che inequivocabilmente il tema “occulto” di questi tavoli di lavoro è la capacità del privato di entrare nella gestione e valorizzazione del Patrimonio Pubblico, difatti le città ospitanti hanno a mio dire un preciso fil-rouge che le unisce: la religione del mercato impone al patrimonio culturale il dogma della privatizzazione.

Non possiamo scordare che tutto inizia con il virus della legge Ronchey nel 1993, che inizia la privatizzazione del patrimonio culturale attraverso lo strumento della concessione, un mezzo solitamente usato per assegnare in gestione la trasmissione e la distribuzione dell’energia elettrica, la gestione delle ferrovie o la distribuzione del gas. Sino ad oggi privatizzare sembrava ai molti il vero unico male. Ma in realtà la logica che poi intravediamo nell’affare è questa: sia la politica, che il privato (da quest’ultima individuato mediante concorsi, bandi, formule contrattuali varie) hanno come obiettivo la sistematica distruzione della capacità di gestione diretta da parte del pubblico.

Per non parlare del decreto omnibus sotto il governo Dini, arrivando a strapiombo sino ai giorni nostri in cui l’Autorità garante della concorrenza e del mercato si trova a dichiarare che “la gestione privata dovrebbe essere la norma, mentre quella pubblica sarebbe una eccezione residuale” con una dissertazione di Antonio Catricalà praticamente ricopiata dalla legge sulla privatizzazione dell’acqua poi abrogata con referendum nel 2011.

Nel caso della futura inaugurazione della nuova area museale a Monreale già si iniziano a tessere le trame di una gestione sempre più privata e interessata apportatrice di ipotetico profitto alla città. I temi a favore sono di una banalità assurda: accresceremo l’economia, introdurremo aziende in grado di muovere flussi di turisti sempre maggiore, daremo lavoro ai cittadini, il privato introdurrà nel sistema pubblico molti capitali, la struttura sarà gestita nel migliore dei modi, il privato provvederà anche alla manutenzione e così via.

Fate attenzione: oggi vi dico alcune cose

La prima è il sentore di piccole fondazioni o Cooperative o Associazioni temporanee di Imprese (ATI) già costituite in sordina da qualche parte e pronte a scendere come i lanzichenecchi di Carlo V a fare razzia della gestione del complesso e delle economie prodotte da questo. Non produrranno nulla di quanto promesso in termini di ricaduta finanziaria in città, ma di contro il politico ha paura di fallire perché conosce i suoi limiti, le incompetenze, le falle di un sistema assolutamente non pronto e inadeguato a creare offerta culturale realmente attrattiva e articolata.

Purtroppo le amministrazioni e in particolare quella monrealese, che certo non sta brillando per oculatezza e capacità degne di particolare merito, non conoscono i dati (pubblici e rendicontati) dimostranti cosa abbia guadagnato il pubblico dall’affidare ai privati lo sbigliettamento nei musei. Nel solo 2010 gli introiti registrati sono di 46.209.838,83 euro di questi incassi sono andati allo Stato solo 6.194.674,66 con una sproporzione indecentemente svantaggiosa.

Il panorama di tutte queste cooperative, fondazioni ed enti privati è costellato da soggetti posti da un potere oligopolistico (guardo per esempio a musei già esistenti nella nostra cittadina) e questo genere di “partecipazioni” è la chiave che consente a queste oligarchie affaristiche e politiche cittadine di continuare a gestire più o meno discretamente il sottobosco della clientela e dei flussi di finanziamento. Hanno tutti il brutto vizio di allocarvi politici a fine carriera, aristocratici in cerca di nomine blasonate, o i classici nipoti in cerca di notorietà per poi lasciare le folte schiere di veri studiosi del settore a elemosinare i soldi per una misera pubblicazione a corredo della varie mostre organizzate dal privato ma lasciate spesso sulle spalle del pubblico.

Il passo successivo di queste operazioni è la scoperta della loro scarsa redditività per il comune e la successiva alienazione per compensare le perdite di bilancio. Alla fine il privato entrerebbe a gestire e l’amministrazione pubblica non deciderebbe ma pagherebbe integrazioni, restauri, studi, ampliamenti, scambi, e tutto questo è già una lunga storia di cui potrei documentarvi passo passo con esempi emblematici e molto discutibili.

Il problema di fondo è la cattiva interpretazione della parola “valorizzazione” nata con una semantizzazione precisa: rendere percepibile il valore generato, in modo diretto indiretto, da un monumento, da un quadro da una scultura. Trasformare al contrario in “liquidità economica” il Patrimonio secolare ereditato durante le vicende storiche ha una valenza sinistra che prelude sempre ad una vendita magari per stadi successivi.

I beni culturali sono pubblici perché la loro fruizione deve restare proprio di godimento pubblico, la loro funzione deve contribuire a promuovere lo sviluppo della cultura. Regalare ad altri il nostro patrimonio è indice della pessima soglia di sensibilità della società: affittare, noleggiare, privatizzare i luoghi simbolo della nostra cultura è sinonimo di sottrazione, di depauperamento, inaccessibilità, costi maggiori sostenuti da tutti.

A quale crescita miriamo e a quale riscatto se voltiamo le spalle alla cultura e alla sua accessibilità?

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