La comunicazione visuale, le esagerazioni nelle manifestazioni, nel significato, nella gerarchia dei rapporti tra architetture e spazi nell’ambito del restauro possono spesso degenerare in macchiette caricaturali, dove la raffinatezza perde il suo posto aggredita dalla indeterminazione delle scelte o da decisioni poco ponderate e dal dubbio gusto.
Interventi così tanto delicati meritori di cura e attenzione particolare, subiscono alla stregua di modelli mutuati dallo lessico pubblicitario, un innalzamento del volume di toni come per la smania di farsi distinguere nel clamore dei “rumori” del presente. E’ oggetto di questa analisi – che non avrei mai voluto scrivere – il restauro della facciata esterna dell’ex Palazzo Reale che si dispiega su via Arcivescovado e poi su via Benedetto D’Acquisto di fianco ad una sede bancaria e al Palazzo di Città. Mi sono subito chiesto, non appena è stato liberato proprio il fianco su via D’Acquisto, cosa abbia alimentato una tale estetica dell’esagerazione.
Purtroppo il mio concetto di restauro è maturato con la sensibilità di nomi come Boscarino o La Regina, che hanno lavorato allo sviluppo della cultura del Restauro e poi si è temprata con nobili interventi sotto le colonne dei Templi di Agrigento o tra le capriate del nostro Duomo e all’interno del Laboratorio per l’Architettura Storica di Palermo. In altri tempi l’agonia di questo insigne malato, che Ruskin avrebbe certamente preferito vedere morire di morte naturale, si sarebbe protratta fino ai giorni nostri e operare su tale monumento si trattava di un’operazione difficile e rischiosa.
Nel mio cuore c’era di certo la speranza di poter godere di qualcosa di diverso, di maggiormente poetico, in cui si esprimesse l’ossimoro di una istanza di storicità e la poetica di un intervento contemporaneo. Penso allora agli interventi di Carlo Scarpa un maestro artigiano, un poeta esteta, prima che un architetto. Le Corbusier parlava di “uomini con la mano chiusa e uomini con la mano aperta, aperta per ricevere e per dare”. Scarpa fu certamente uno di questi, ma i responsabili di queste scelte progettuali odierne non hanno mai compreso nemmeno la testimonianza del lavoro svolto a Palazzo Abatellis. Eppure la poesia delle idee è ancora necessaria, anche in un mondo che si affaccia sempre più alla interazione elettronica e digitale.
Dipingere una facciata di rosso porpora a cosa rimanda? E soprattutto mimare delle pietre di ammorsamento con un misero tromp-l’oeil ripropongono forse il castello di cenerentola a Eurodisney? A quale preesistenza ci si vuole riferire se questa è poi nascosta da un intonaco? Interrogativi che immediatamente squalificano l’intervento e lo declassano a una becera teatralità ideologica e di fatto. San Tommaso d’Aquino propone tre criteri per la definizione del bello: integritas, consonantia e claritas, che rappresentano nel loro insieme i criteri formali che ci permettono di definire e identificare la bellezza di un’opera, essi si implicano l’un l’altro, e la considerazione di uno di loro non può mai prescindere dalla realtà degli altri due. Tutta l’estetica medievale tende alla identificazione tra “pulchrum et bonum” (ciò che è bello deve anche essere funzionale) e il rimandare a questa logica è quanto mai importante perché era lo spirito guida dei canoni progettuali e culturali del tempo di Guglielmo.
Nell’atto progettuale contemporaneo l’introduzione di una quota di integritas, consonantia e claritas, contribuirebbero a immaginare un intervento in cui la relazione tra ragioni, condizioni e fondamenti potessero ritrovare un linguaggio più adeguato e proprio senza l’affidarsi alla priorità di una preoccupazione comunicativa effimera e priva di utilità. La consonantia o proportio vuole stabilire un dialogo necessario, una corrispondenza che ristabilisca anche la verità storica come attributo (la verità dell’opera dell’uomo come quella di Dio). Essa è anche la consonanza tra il sistema della relazioni e corrispondenza cromatiche come volumetriche, ma al tempo è il riconoscimento dei materiali che vengono scelti e messi in opera in gerarchia, per la restituzione dell’opera architettonica. Proporzione è quindi, per noi, organizzazione propria dei materiali e del problema specifico dell’intervento nella sua integrità e nella sua Claritas (chiarezza).
La conclusione ancora una volta è una sonora bocciatura e non additeremo colpevoli, perché del resto hanno stampato in quel muro il silenzio di un pensiero troppo effimero. Un segno che ha voluto esagerare come un coro da stadio, tanto chiassoso, sgrammaticato e maleducato quanto deprecabile e inutile.