Mi sono cimentato in un gioco che mi ha portato a riflettere su cosa possa essere oggi la capacità di attraversare una città e di interpretare ciò che essa rappresenta e ci comunica con i suoi segni del tempo, le sue rughe, con il nuovo e in secondo luogo a come essa possa rivelarsi ai nostri occhi.
Tutto sembra apparentemente incorporarsi e amalgamarsi, ma è solo una sovrapposizione o un eccessiva superfetazione e ogni pianificazione urbanistica e sociale sembra una utopia. Spulciando su instagram con l’hashtag #Monreale ciò che emerge è l’occhio di un potenziale turista capace di emozionarsi solo dinanzi ai principali siti architettonici e a quanto di immediatamente circostante ad essi. Ma non cambia molto anche per chi è del luogo…
Il quesito che mi sono posto è dunque relativo all’approccio mentale che abbiamo rispetto la nostra città e alla sua percezione, qual è il punto di vista che cattura la vista e l’occhio? Come questo influenza i nostri percorsi mentali e poi fisici nell’attraversare vie e nello stringere relazioni?
Uno dei primi abitanti del villaggio di Mons Regalis ovviamente avrà potuto godere del connubio con una natura che avrà dovuto “spostare” quasi a forza per penetrarla e affermare lo spazio antropico, inoltre per svariati secoli la dimensione sarà stata connotata dalla lentezza. La lentezza è oggi una rarità di inestimabile valore di cui si può godere in pochi eletti luoghi (uno tra questi è Venezia) ed insieme alla costanza dà la misura dell’amore verso le cose.
Ieri il viaggiatore e il cittadino nel percorrere la città di Monreale potevano sentire la presenza di una forte regalità temporale e religiosa affermate dal simulacro della Chiesa conclamata nella emergenza di un complesso di architetture costellate da puntuali tessuti urbani a corollario. Le immagini che ci raccontano questa visione (Laminae) sono ormai parte del nostro corredo iconografico in molti di noi sedimentato e stratificato nel personale immaginario.
Cosa vedono oggi i miei scatti fotografici fatti con un semplice smartphone? Vedo saccheggio, scempio, vedo i taxi posteggiati sotto un “Arco degli Angeli” (immagine di un lassismo politico connivente e accomodante), faccio la foto a delle baracche grigie e grosse come bubboni con le ruote trascinate nell’antivilla comunale per manifesta incapacità a uscire dagli schemi e inventare una soluzione o applicare un principio unico per tutti. Fotografo ancora scalinate di marmo sbeccate forse da “turisti affamati di billiemi” che negli anni hanno portato venditori abusivi come se fossero i loro stessi parassiti.
Ho fatto uno scatto a chi posteggia la notte in via Arcivescovado dinanzi al proprio esercizio commerciale per controllare la sua auto senza antifurto. Mi meraviglio nel vedere auto in sosta selvaggia e selvaggi dentro le auto desiderosi di posteggiare in piazza e passare dal sedile alla sedia di un’apericena.
Mi finisce peggio quando poi inviano sul mio profilo twitter documenti di un dopofesta con “ricordini” corporali dinanzi le porte altrui evidentemente ripensate e risemantizzate a vespasiano. L’aspetto urbano è poi specchio progressivo del costume, Cicerone nelle Verrine gridava “O tempora, O mores….” io non trovo alcuna qualità architettonica, nessun premio alla contestualizzazione, nessuna ricerca verso l’inserimento contestualizzato e ragionato, palese frutto di una barbarie imperante e armonizzata nel tempo. Una città fin troppo spontanea, perché in tempi di recessione, prima culturali e poi economici fa sempre più appello all’informale come soluzione ai mali di una evidente inosservanza di regole e pianificazione.
E laddove ci sono chiare regole, troviamo sempre qualcuno pronto a spostare i paletti della norma per soddisfare i bisogni del singolo.
E’ urbanistica e poi politica questa molteplicità fatta da singoli attori nel territorio e da burocrati decisori?, ma dopo quasi cinquanta anni cosa mai ci ha lasciato Astengo? Quali immagini lascerò ai posteri quando abbandonerò il mio iPhone?